La speranza che ci unisce in Cristo

7 Dicembre 2025

Daniele Scarabel

Daniele Scarabel

Pastore

Ultimamente qualcuno mi ha detto: “Mi sento un peso per la chiesa”. Quelle parole mi hanno colpito. Perché mostrano quanto facilmente possiamo fraintendere il Vangelo. La chiesa non è un club di persone che ce l’hanno fatta. È un ospedale dove tutti, in un modo o nell’altro, stiamo guarendo.

La scorsa domenica, con Romani 14, abbiamo visto che su temi secondari non ci muoviamo sempre tutti allo stesso modo. Le nostre sensibilità sono diverse. Paolo ha parlato dei “forti”, che hanno maggiore libertà, e dei “deboli”, che hanno una coscienza più scrupolosa. E ci ha ricordato che il vero problema non è la differenza, ma il modo in cui la viviamo: giudizi, distanze, pesi inutili gli uni sugli altri…

In Romani 15 Paolo va oltre. Non dice solo di evitare il giudizio. Dice qualcosa di più impegnativo: non basta tollerare l’altro, bisogna portare il suo peso. Non basta lasciarlo in pace, bisogna cercare il suo bene. Qui non stiamo più discutendo di chi ha ragione o torto, ma di che cosa significhi imitare Cristo nel modo in cui usiamo la nostra libertà.

Cristo sostiene la nostra fragilità

Or noi, che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non compiacere a noi stessi. Ciascuno di noi compiaccia al prossimo, nel bene, a scopo di edificazione. Infatti anche Cristo non compiacque a se stesso; ma come è scritto: «Gli insulti di quelli che ti oltraggiano sono caduti sopra di me». Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché, mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza. (Romani 15:1-4)

Paolo dà per scontato che nella chiesa ci siano persone più forti e persone più deboli nella fede. E dice ai forti: se hai più libertà, non è per il tuo comfort, ma per servire chi fa più fatica. Ci chiede di “sopportare le debolezze dei deboli”. Sopportare non è tollerare. È mettersi vicino, rallentare il passo, caricarsi di una parte del peso dell’altro.

Per non lasciare queste parole in teoria, Paolo ci rimanda a Cristo. Cita il Salmo 69, un lamento in cui il giusto soffre prendendo su di sé insulti che non meritava. I primi cristiani hanno riconosciuto in quel giusto la voce di Gesù: colui che ha portato su di sé ciò che era nostro, non suo.

Poi Paolo aggiunge che questa citazione non è casuale. Tutto ciò che Dio ha scritto nel passato serve anche a noi oggi: ci forma, ci sostiene, ci dà pazienza e consolazione mentre, passo dopo passo, impariamo a vivere nello stesso modo di Cristo.

Il rischio dei forti è pensare: “Se l’altro è ancora debole, è un problema suo”. Paolo invece dice: se ti ritieni forte, avvicinati per edificare. Proprio come Cristo fa con noi.

Per rendere concreto il discorso, pensa a una persona che reputi “debole” e chiediti: quando vedo la sua fragilità, la vivo come un fastidio o come un’occasione di imitare Cristo?

Prendiamo un momento semplice: il dopo culto. Di solito ci fermiamo con chi conosciamo meglio, oppure andiamo via in fretta. Ma se prendiamo sul serio Paolo, forse vale la pena chiederci: chi potrei scegliere di vedere oggi? Chi sto evitando senza accorgermene? Chi avrebbe bisogno di un minuto del mio tempo?

Forse però, ascoltando queste parole, ti senti già al limite e pensi: “Non riesco nemmeno a portare il mio peso”. Paolo non ti chiede di portare quello degli altri con le tue forze. Cristo non è solo un modello, è colui che ti sostiene. Ci sono giorni in cui dai e giorni in cui ricevi. È così che funziona una comunità.

E riconoscere la propria fragilità non è fallimento. Ti permette di dire: “Non devo farcela da solo”. Se oggi non hai forze, la cosa più vera è lasciarti aiutare. Anche questo è vivere il Vangelo, e dà a qualcun altro l’opportunità di viverlo a sua volta.

Paolo lo riprende anche con i Galati, e lo dice così:

“Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo.” (Galati 6:2)

La legge di Cristo non è un insieme di regole in più, ma il modo in cui Cristo stesso si è dato per noi. Portare un peso dell’altro non è un dettaglio. È il Vangelo reso visibile.

La forza della chiesa non sta nei membri “forti”, ma nella forza di Cristo che vive in noi. Prenditi un momento, anche adesso mentre ascolti, per pensare a un nome: chi posso alleggerire oggi, anche solo un poco, con la forza che Cristo mi dà?

Accogliersi come Cristo ci ha accolti

Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio. (Romani 15:5-7)

Questi versetti non sono un rimprovero, ma una preghiera. Non dice: “dovete farcela”, ma chiede a Dio che renda la comunità capace di vivere “un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù”. La buona volontà non basta. L’unità nasce da ciò che Dio compie in noi.

Per questo Paolo prega prima di esortare. Sa che ciò che chiede non può venire da noi. Solo se Dio ci aiuta a vederci l’un l’altro come Cristo ci vede, possiamo riuscire a dare gloria a Dio “di un solo animo e di una stessa bocca”.

Forse noi in Europa facciamo fatica a immaginarlo, perché abbiamo il lusso di discutere per anni su questioni secondarie. Ma basta guardare a come opera Dio in contesti dove la fede costa molto.

Penso alla chiesa clandestina in Iran. Molti credenti si incontrano in case private, sapendo che ogni riunione può portarli all’arresto. Non hanno edifici, non hanno libertà, a volte non hanno neppure una Bibbia a testa. Eppure raccontano che, quando riescono a riunirsi, si sentono davvero “un solo cuore”. Cristo è tutto ciò che hanno. Un solo centro, una sola voce.

Un credente, dopo settimane di prigione, ha detto: “La nostra unità non viene da noi. Viene da Cristo che ci ha accolti.” È esattamente ciò che Paolo intende: non un ideale irraggiungibile, ma ciò che accade quando Cristo è al centro.

E qui Paolo arriva al punto: “Accoglietevi come Cristo vi ha accolti”. L’accoglienza diventa la misura concreta della presenza del Vangelo nella comunità. Cristo non ci ha accolti perché eravamo a posto. Ci ha accolti per primi. È questa accoglienza a trasformarci.

Cristo non ci ha semplicemente tollerati a distanza. Il suo è un coinvolgimento che prende su di sé il costo della nostra fragilità. Ci accoglie senza annullare la verità e senza cancellare la nostra identità, ma aprendoci uno spazio reale in cui possiamo cambiare. È questo il modello che Paolo ci mette davanti: fare spazio all’altro senza perdere noi stessi, come Cristo ha fatto con noi.

Accoglierci come Cristo ci ha accolti non significa mettere da parte la verità. Significa creare lo spazio sicuro in cui la verità può essere detta e ascoltata senza schiacciare nessuno. Il confronto diventa possibile quando è dentro un contesto di accoglienza. Cristo non ha mai separato grazia e verità. E quando una comunità vive questa combinazione, le relazioni non diventano più fragili, ma più profonde.

Quando una chiesa se ne dimentica, diventa rigida, perché chi si sente forte tende a imporre la propria forza. Quando invece unisce grazia e verità, crea spazio per chi è fragile, per chi sbaglia, per chi è agli inizi. L’accoglienza non è un optional. È la forma visibile del Vangelo.

Se qualcuno nuovo entrasse oggi in mezzo a noi, che Vangelo leggerebbe dai nostri atteggiamenti? Quando incontro qualcuno della comunità, sto mostrando, anche in piccolo, il modo in cui Cristo ha accolto me?

Una speranza più grande di noi

Infatti io dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promesse fatte ai padri; mentre gli stranieri onorano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: «Per questo ti celebrerò tra le nazioni e canterò le lodi al tuo nome». E ancora: «Rallegratevi, o nazioni, con il suo popolo». E altrove: «Nazioni, lodate tutte il Signore; tutti i popoli lo celebrino». Di nuovo Isaia dice: «Spunterà la radice di Isai, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni». Or il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo. (Romani 15:8-13)

Paolo ora allarga l’orizzonte. Non parla più solo dei rapporti interni. Mostra come Cristo unisce ciò che per secoli era diviso: ebrei e nazioni. Questa unità non nasce dall’iniziativa della chiesa. È l’opera di Cristo, la fedeltà di Dio alle promesse antiche.

Cristo è diventato dapprima “servitore dei circoncisi” per portare a compimento ciò che Dio aveva preparato sin dall’inizio. Le promesse ad Abramo, Isacco e Giacobbe trovano in lui la loro realizzazione. Ma poi Paolo aggiunge che anche “gli stranieri onorano Dio per la sua misericordia”.

Per rafforzare questo, cita quattro testi dell’Antico Testamento. È il suo modo di dire che la misericordia verso le nazioni non è una novità recente. Era da sempre nel cuore di Dio.

Perché questo conta per noi? Perché spesso la nostra visione della fede è troppo piccola: la mia crescita, i miei problemi, la mia comunità. Paolo invece ci ricorda che siamo parte di una storia più grande. La grazia che ci ha accolti è la stessa che sta chiamando persone lontane, diverse da noi.

E questo cambia anche il modo in cui viviamo la fede oggi: la fede non è fatta per chiudersi nel cerchio delle nostre abitudini. Se Cristo ha unito popoli lontani, allora ci chiama anche oggi a uscire dai nostri confini comodi.

In una comunità come la nostra non avremo mai tutti la stessa storia, lo stesso carattere, lo stesso ritmo. Una chiesa che vive nella speranza non teme questa diversità. La riconosce come parte dell’opera di Dio. Non dice: “Siamo diversi, quindi facciamo fatica”. Dice: “Siamo diversi, quindi Dio sta facendo qualcosa di più grande di noi”.

E questo non resta teoria. Inizia in cose semplici. Chi sono oggi le “nazioni” per noi? A volte i nuovi arrivati che non conoscono ancora nessuno. A volte chi viene da contesti lontani dal nostro. A volte chi è solo all’inizio della fede e si sente fuori posto. Capita che qualcuno entri, resti in silenzio e non sappia a chi rivolgersi. Anche un semplice “Ciao, come stai? Piacere conoscerti!”, detto con sincerità, può essere un primo passo reale.

E a questo punto la domanda diventa inevitabile: la nostra visione della chiesa è larga quanto il cuore di Dio o stretta quanto le nostre abitudini? Una chiesa che vive nella speranza non si chiude. Si apre, si lascia coinvolgere, si allarga. Quando Cristo è al centro, cresce la gioia, cresce la pace, cresce la capacità di guardare oltre.

Tutto questo trova il suo centro nella croce. È lì che Cristo ha portato il peso più grande, quello che nessuno di noi poteva sollevare. È lì che ha aperto per noi lo spazio dell’accoglienza di Dio. L’unità, l’accoglienza e la speranza che Paolo descrive non nascono dal carattere, ma dal Vangelo che prende forma nella nostra vita.

Dove posso rendere visibile l’accoglienza che Cristo ha avuto verso di me? Dove posso portare un peso che non è il mio? Dove posso essere un segno di speranza per qualcuno?

Ed è qui che la preghiera di Paolo diventa anche la nostra: “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza per la potenza dello Spirito Santo”.

Forse questa settimana non farai grandi cose. Va bene così. Lo Spirito Santo non ci chiede l’impossibile, ma il passo successivo. E un gesto semplice, fatto con sincerità, può diventare un seme di speranza.

E quando ti sembra di non avere forze, ricorda: il Dio della speranza ci riempie non perché siamo capaci, ma perché è fedele. La speranza non nasce dalle nostre energie, ma dalla sua presenza.

Lasciamo che lo Spirito ci trasformi! Che la grazia prenda forma non come un peso, ma come la libertà di accogliere e portare i pesi come Cristo ha fatto con noi.

Amen

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