Morto al peccato, vivo in Cristo!

Daniele Scarabel
Pastore
Ti è mai capitato di vivere un cambiamento radicale? Circa vent’anni fa la mia vita è cambiata completamente: da studente immerso nei libri di teologia e nei dibattiti accademici con i miei compagni a Basilea, mi sono trovato a servire come pastore a Locarno. Era tutto diverso, con nuove responsabilità, persone reali con problemi concreti e sfide quotidiane. Non potevo continuare a vivere e ragionare come prima, il cambiamento era necessario.
Lo stesso accade quando incontriamo Gesù: la sua grazia ci porta in una nuova realtà, dove non possiamo più essere dominati dal peccato o vivere come se nulla fosse cambiato. Sarebbe un controsenso, perché ora siamo liberi di vivere in Cristo.
Eppure, a volte, rischiamo di vivere proprio così: diciamo di appartenere a Cristo, ma viviamo ancora come se un altro regnasse nella nostra vita. Lasciamo che il peccato, la paura o la rabbia siedano ancora sul trono.
Paolo, nel testo di oggi della lettera ai Romani, affronta proprio questa contraddizione e ci mostra cosa significa essere davvero morti al peccato e vivi in Cristo.
Uniti con Cristo: morti al peccato
Che diremo dunque? Rimarremo forse nel peccato affinché la grazia abbondi? No di certo! Noi che siamo morti al peccato, come vivremmo ancora in esso? O ignorate forse che tutti noi, che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita. (Romani 6:1-4)
Alla fine del capitolo 5, Paolo aveva detto: “Dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata”. Era però consapevole del rischio che qualcuno potesse banalizzare la grazia, come se fosse una carta prepagata da usare senza pensarci come scusa per continuare a peccare.
Per questo, inizia il capitolo 6 con una domanda forte e provocatoria, che potremmo parafrasare così: “Se Dio perdona, allora perché non peccare ancora?”. Ma la sua risposta è netta: “No di certo!”, letteralmente: “Che non sia mai!”.
Il Vangelo tiene insieme due verità: Dio è santo, e il nostro peccato ha un peso reale; e Dio è pieno di grazia, e in Cristo siamo pienamente accettati. Se non comprendiamo a fondo queste verità, rischiamo due estremi: una grazia senza cambiamento (liberalismo) o un’obbedienza senza gioia (legalismo). Se dimentichiamo che Dio è santo, finiamo per prendere alla leggera il peccato. Se dimentichiamo la grazia, vivremo schiacciati dalla colpa. Senza entrambe, perdiamo la gioia e la forza del Vangelo.
Ecco perché Paolo ci ricorda che siamo uniti a Cristo. E lo fa usando l’immagine del battesimo: siamo stati sepolti con Lui e risorti con Lui per “camminare in novità di vita”. Il battesimo è il segno visibile della nostra unione con Cristo nella sua morte e risurrezione o come dice Paolo: “siamo morti al peccato”. Ma che cosa significa in pratica?
Molti credono che essere morti al peccato significhi che non abbiamo più desideri peccaminosi o che il peccato non abbia più alcuna influenza su di noi. Ma se così fosse, Paolo non avrebbe bisogno di dire poco dopo: “non regni il peccato nei vostri corpi mortali” (v.12).
Altri credono che significhi semplicemente che non dovremmo più peccare. Paolo non dice però che “dovremmo morire al peccato”, ma che “siamo morti al peccato”. Il verbo greco indica un’azione passata, completa, definitiva. Non si tratta di un processo graduale: tu sei morto al peccato dal momento in cui hai accettato che Cristo è morto al posto tuo e hai accolto il perdono che Lui ti offre.
Non si tratta neppure di un gesto simbolico, come rinunciare al peccato al momento del battesimo. No, essere morti al peccato significa che non siamo più obbligati a rispondere ai suoi ordini. Come un corpo morto non reagisce, così il credente non è più sotto il suo potere. Quando il peccato bussa, tu non devi più aprire la porta. Come dice Paolo: “Come potremmo ancora vivere in esso?”.
Anche se a volte ci capita di cedere al peccato, e anche se la Bibbia stessa prevede che questo accada, la verità non cambia: in Cristo siamo già liberi. Il peccato non ha più il diritto di dominarci. Anche quando inciampiamo, non siamo più sotto il suo potere.
E tu, in che area della tua vita stai ancora ascoltando una voce che in realtà non ha più autorità su di te? Quando quella vecchia voce si fa sentire, possiamo rispondere con fede: “Io sono morto a questo”. Non è una battaglia da affrontare da soli, ma una realtà da ricordare ogni giorno. La nostra libertà è fondata sull’opera compiuta di Cristo, non sulle nostre forze.
Stai ancora temendo il peccato come se fosse un tiranno che ti domina, o lo riconosci per quello che è: un nemico già sconfitto?
Una vita nuova: risorti con Cristo
Poiché, se siamo stati totalmente uniti a lui in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una risurrezione simile alla sua. Sappiamo infatti che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui, affinché il corpo del peccato fosse annullato, e noi non serviamo più al peccato; infatti chi è morto è libero dal peccato. Ora, se siamo morti con Cristo, crediamo pure che vivremo con lui, sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Poiché il suo morire fu un morire al peccato una volta per sempre; ma il suo vivere è un vivere a Dio. (Romani 6:5-10)
Dopo aver visto che siamo morti al peccato, Paolo aggiunge una verità ancora più sorprendente: siamo anche risorti con Cristo. La risurrezione di Cristo non è solo un evento passato, è la conferma che siamo stati perdonati e resi giusti davanti a Dio (Romani 4:25). Ma è anche l’inizio di qualcosa di nuovo dentro di noi: una nuova vita, una nuova identità, una nuova direzione, resa possibile dallo Spirito Santo (2 Corinzi 5:17).
La nostra unione con Cristo è così profonda che tutto ciò che è accaduto a Lui (la sua morte, la sua risurrezione, la sua vita nuova) ora appartiene anche a noi. In Cristo, ciò che è vero di Lui diventa vero anche per noi. E questo non significa semplicemente cambiare comportamento, ma ricevere una nuova identità, una nuova appartenenza, una nuova direzione. È una realtà spirituale che trasforma ogni cosa, a partire da dentro di noi.
Questo è possibile perché, come scrive Paolo, “il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui”. Non è un processo graduale, ma un atto compiuto e definitivo. Il “vecchio uomo” rappresenta chi eravamo prima di conoscere Cristo: egoisti, chiusi a Dio, dominati dal peccato. Quel nostro “io” è stato inchiodato alla croce con Gesù. A quale scopo? Paolo scrive: “Affinché il corpo del peccato fosse annullato, e noi non serviamo più al peccato”.
Paolo distingue qui tra il “vecchio uomo” e il “corpo del peccato”. Il primo riguarda la nostra identità passata, ormai finita; il secondo descrive la nostra parte umana, ancora vulnerabile, che il peccato cerca di usare come strumento per rientrare in scena. Ma la buona notizia è che non ha più il diritto di comandarci. Non è più lui sul trono. Come dice anche Paolo in Galati 2:
Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. (Galati 2:20)
Ecco la grande differenza: quando un non credente pecca, lo fa secondo la sua vecchia natura; quando un credente pecca, va invece contro la sua nuova identità. Il problema, spesso, non è solo il peccato… è che dimentichiamo chi siamo diventati.
Hai mai visto una pianta invernale, potata fino ai rami secchi, che sembra completamente morta? Eppure, sotto la superficie, la vita è presente. Appena arriva la primavera, spuntano i germogli. La risurrezione spirituale non sempre si vede, ma è già all’opera.
Vivere da risorti con Cristo non significa essere perfetti o non sbagliare più. Significa che ora la nostra vera identità è legata a Cristo e non più al peccato: “chi è morto è libero dal peccato”. E questo è molto di più di semplicemente “comportarsi bene”. È vivere con uno scopo nuovo, con una consapevolezza nuova: non siamo più sotto il peccato, non siamo più condannati, non apparteniamo più a quel mondo.
Eppure, a volte viviamo da cristiani disorientati. Dimentichiamo chi siamo e torniamo ai vecchi schemi, come se la risurrezione fosse solo un ricordo del passato, e non una realtà viva nel presente. Ma Paolo ci ricorda: la potenza della risurrezione opera in noi oggi.
Forse ti senti stanco, scoraggiato, o spiritualmente spento. Ma se sei in Cristo, la vita nuova è ancora lì. Non è sparita, è solo nascosta. La vera domanda, allora, non è solo “Cosa devo fare di diverso?”, ma: “Chi sono io, in Cristo, oggi?”.
Per ricordarlo ogni giorno, puoi iniziare con un gesto semplice: appena sveglio, prima di fare qualsiasi cosa, fermati e dichiara: “In Cristo, io sono amato. Sono libero. Sono vivo.”
E davanti a una situazione difficile, prova a chiederti: “Cosa cambierebbe se affrontassi questo conflitto, questa preoccupazione, questa relazione partendo dalla mia nuova identità in Cristo?”. La tua identità non dipende da come ti senti, ma da ciò che Cristo ha già fatto. Quando lo ricordi, anche le scelte quotidiane iniziano a cambiare.
Vivere liberi: strumenti di giustizia
Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi a Dio in Cristo Gesù. Non regni dunque il peccato nel vostro corpo mortale per ubbidire alle sue concupiscenze; e non prestate le vostre membra al peccato come strumenti d’iniquità; ma presentate voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia. Infatti il peccato non avrà più potere su di voi, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia. (Romani 6:11-14)
Dopo aver chiarito chi siamo in Cristo, ovvero morti al peccato e risorti con Lui, Paolo ci invita ora a vivere in modo coerente con questa nuova identità. Al centro del suo appello c’è un verbo fondamentale, un ponte tra ciò che siamo e come viviamo: “consideratevi morti al peccato, ma viventi a Dio in Cristo Gesù”.
Il verbo greco usato da Paolo (logízomai) e tradotto con “consideratevi” non significa “fingete che sia così”, ma “riconoscete ciò che è vero”, “tenetelo per certo”, “fate vostra questa realtà”.
Immagina di ricevere un’eredità enorme, sufficiente a cambiare ogni aspetto della tua vita. È tua per diritto, ma se non la ritiri, resterà solo sulla carta. Non ci sarà nessun cambiamento reale, nessuna trasformazione concreta.
È questo il senso dell’invito di Paolo: la tua libertà è già stata dichiarata, firmata e registrata nei cieli, ma se non la riconosci, se non la fai tua ogni giorno, vivrai come se fossi ancora schiavo, anche se sei già stato liberato.
Poi Paolo ci porta sul piano concreto, quello della vita di ogni giorno. Se davvero siamo morti al peccato e risorti con Cristo, allora non possiamo più lasciare che il peccato governi i nostri corpi. È vero, non ha più l’autorità di un tempo, ma se gli lasciamo spazio, proverà comunque a comandare, a insinuarsi, a dettare legge.
Per questo Paolo ci esorta a non prestare le nostre membra, cioè il nostro corpo, le nostre parole, i nostri pensieri, le nostre energie, come strumenti d’iniquità, come armi nelle mani del nemico. Al contrario, siamo chiamati a offrirci a Dio. Non come semplici discepoli che si sforzano di fare il proprio dovere, ma come persone vive, risorte con Cristo. Abbiamo una nuova identità, e con essa una nuova missione: vivere per Colui che ci ha riscattati.
Già nel capitolo 5, Paolo ha parlato di chi regna nella nostra vita: o il peccato, o la grazia. Non c’è una via di mezzo. Ogni giorno scegliamo chi mettiamo sul trono: la nostra carne o Cristo.
Ma questa scelta oggi è possibile perché, come dice Paolo, non siamo più sotto la legge, ma sotto la grazia.
E siccome in Cristo siamo già accettati, tutto in noi può diventare uno strumento nelle mani di Dio. La vera differenza non sta nello strumento, ma nelle mani che lo guidano. Se io, ad esempio, provassi a suonare un violino, ne uscirebbe solo un rumore straziante. Ma nelle mani di un maestro, quello stesso violino crea musica che tocca l’anima. Noi siamo quello strumento. E ora siamo nelle mani di Dio.
Non vorresti anche tu affidarti a Dio perché faccia della tua vita una melodia unica, piena della sua grazia? Vivere sotto la grazia non significa “fare ciò che si vuole”, ma essere finalmente liberi di fare ciò che è giusto.
Non si tratta solo di evitare il peccato o resistere alle tentazioni, ma di scegliere attivamente di appartenere a Dio: con i tuoi pensieri, con le tue parole, con il tuo modo di stare con gli altri, con il tempo che hai a disposizione.
La vera libertà non è l’assenza di limiti, ma la possibilità di scegliere chi servire. Presentarci a Dio “come vivi, tornati dai morti” e offrirgli ogni parte di noi – la mente, le parole, le relazioni, la sessualità, il tempo – significa vivere ogni giorno come strumenti di giustizia, nelle mani del nostro Creatore.
La vita cristiana non si definisce solo da ciò a cui diciamo “no”, ma da ciò a cui diciamo “sì”.
E allora, concretamente: c’è un’area della tua vita in cui oggi puoi dire un “sì” più forte a Dio? Non solo un “no” al peccato, ma un “sì” alla sua volontà?
Inizia da lì. Con semplicità. Offrigli quella parte e dì: “Signore, anche questa è tua. Usala per la tua giustizia.”
Tutto inizia con un passo semplice: la disponibilità. È dire: “Signore, eccomi. Sono tuo. Guidami tu.” Questo è il cuore della grazia: non lo sforzo di diventare qualcuno, ma la gioia di vivere come chi siamo già in Cristo.
Perciò, ricordalo a te stesso, ogni giorno: “In Cristo sono libero. Oggi vivo sotto la grazia. Oggi sono uno strumento nelle mani di Dio, accordato dalla sua grazia, pronto per la sua gloria.”
Amen