Piegato e benedetto per un nuovo inizio

21 Luglio 2024

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Daniele Scarabel

Daniele Scarabel

Pastore

Domenica scorsa abbiamo visto che Giacobbe, dopo la nascita di Giuseppe, l’undicesimo figlio e il primo di Rebecca, chiese a Labano di lasciarlo partire per tornare a casa sua, nel suo paese. Ma Labano lo convinse a restare in cambio di un adeguato salario. Giacobbe propose di lavorare per Labano, a patto di poter tenere per sé parte del gregge, come Dio stesso gli aveva rivelato. In quel modo Giacobbe diventò ricchissimo.

Per un totale di 20 anni passati al servizio di Labano, il Signore aveva condotto Giacobbe attraverso un lungo periodo di prova, nel quale imparò sulla propria pelle cosa significa essere imbrogliato. Negli anni Giacobbe imparò anche a confidare sempre più in Dio e sempre meno in sé stesso. Ma non era ancora giunto là dove Dio voleva averlo…

Così oggi vedremo Dio portare Giacobbe al punto da essere finalmente costretto a fare la cosa che più gli risulta difficile, cioè sottomettersi. Giacobbe dovrà imparare a lasciarsi andare nelle mani di Dio e a riconoscere di non avere il totale controllo della propria vita…

Impara a temere Dio

Giacobbe sentì che i figli di Labano dicevano: «Giacobbe ha preso tutto quello che era di nostro padre e, con quello che era di nostro padre, si è fatto tutta questa ricchezza». Giacobbe osservò pure il volto di Labano e vide che non era più, verso di lui, quello di prima. Il SIGNORE disse a Giacobbe: «Torna al paese dei tuoi padri, dai tuoi parenti, e io sarò con te». (Genesi 31:1-3)

Per Giacobbe era giunto il momento di tornare a casa. Questa volta fu però il Signore stesso a dirglielo, aggiungendo la chiara promessa: “e io sarò con te”. Il Signore si presentò in seguito come “il Dio di Betel” (31:13), ricordando così a Giacobbe le promesse che gli aveva fatto e come Giacobbe aveva promesso di sottomettersi a Lui se veramente le avesse mantenute. Ebbene, possiamo decisamente dire che Dio aveva fatto la sua parte… E Giacobbe?

Di seguito, Giacobbe raccontò tutto alle mogli, ricordando loro come Labano tentò più volte di ingannarlo e di come Dio non permise a Labano di fare del male a Giacobbe. Rachele e Lea diedero ragione al marito e acconsentirono di partire con lui. Purtroppo, lo fecero di nascosto, “mentre Labano se ne era andato a tosare le sue pecore” (31:19), ingannando così Labano. E, come se non bastasse, “Rachele rubò gli idoli di suo padre” (31:19). Non sappiamo perché lo fece, ma questo fece parecchio arrabbiare Labano…

Quando tre giorni dopo Labano si accorse della loro fuga li inseguì, li raggiunse e rimproverò Giacobbe per essere fuggito di nascosto, per averlo ingannato e per non averlo avvertito. Labano disse che avrebbe voluto congedare Giacobbe e la sua famiglia con una festa, ma evidentemente mentiva. Lui stesso ammise che avrebbe potuto fargli del male se Dio non gli fosse apparso intimandogli di non ostacolare Giacobbe.

Anche Giacobbe stesso ammise il perché della fuga, dicendo: “Avevo paura, perché mi son detto che mi avresti tolto con la forza le tue figlie” (31:31). E questo è anche il punto principale di questo capitolo: Giacobbe temeva più l’uomo di Dio! Giacobbe ancora non riusciva a fidarsi pienamente di Dio, anche se affermò che fu “il Dio d’Abraamo e il Terrore d’Isacco” ad averlo protetto dai tentativi di inganno di Labano (Genesi 31:41-42). Il nome “terrore d’Isacco” appare solo qui e indica forse il fatto che Dio aveva convinto suo padre Isacco a temerlo. Ma lo temeva davvero anche Giacobbe? E tu, quanto lo temi?

Nell’Antico Testamento, temere Dio ha certamente l’idea di riverenza, soggezione e rispetto. Ma va ben oltre. Significa capire chi sono alla presenza di Dio, che Lui è santo, onnipotente, onnisciente e incredibile al di là di ogni cosa che posso anche solo osare chiedere o immaginare. E significa capire come io mi colloco in relazione a tutto ciò. Questo timore di Dio dovrebbe spingermi a dire: “Voglio essergli fedele in tutto e per tutto”.

Temere Dio significa anche comprendere che Dio è santo e giusto, e che odia il peccato anche nella vita del credente. Ma non per essere poi terrorizzato all’idea di dover subire l’ira di Dio o la sua punizione, perché temere Dio non significa che come credente devi avere il terrore di Dio, non si tratta di temere la sua ira o la sua punizione, perché non c’è più “nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Romani 8:1).

Temere Dio ha più a che fare con il desiderio di rispettarlo, di obbedirgli e di accettare la sua correzione quando sbagliamo. Significa rendergli gloria in tutto ciò che facciamo nella nostra vita. Il Creatore dell’universo è intimamente coinvolto in ogni nostra mossa. Egli vede, conosce e valuta tutte le nostre scelte e noi ne risponderemo a Lui. Il nostro rispetto per la maestà di Dio ci spinge a onorarlo. La nostra gratitudine per la sua misericordia ci spinge a volerlo servire bene. In questo senso, quanto puoi affermare di temere Dio nella tua vita?

Alla fine, Giacobbe e Labano fecero un patto di non belligeranza e ciascuno proseguì per la sua strada. Dio aveva chiaramente protetto Giacobbe da colui che temeva, Labano, ma Dio non aveva ancora finito con Giacobbe, perché stava per cadere dalla padella nella brace

Prega e confida nel Signore

Giacobbe continuò il suo cammino e gli vennero incontro degli angeli di Dio. Come Giacobbe li vide, disse: «Questo è l’esercito di Dio». E chiamò quel luogo Maanaim. (Genesi 32:1-2)

Ancora una volta Dio fece capire a Giacobbe di essere con lui, mandandogli questi angeli che gli vennero incontro. Eppure, in quel frangente Giacobbe aveva altro per la testa, perché c’era un’altra persona che temeva molto più di quanto temesse Labano, ovvero suo fratello Esaù. Perciò, la prima cose che Giacobbe fece fu mandare dei messaggeri per avvisarlo che stava tornando a casa e sperando nella sua misericordia.

I messaggeri tornarono però riferendogli che Esaù stava arrivando con quattrocento uomini e “Giacobbe fu preso da gran paura e angoscia” (32:7). Non proprio il benvenuto che si aspettava. Giacobbe sapeva di essere spacciato se suo fratello avesse deciso di attaccarlo. Di conseguenza Giacobbe divise tutta la sua gente in due gruppi, sperando di salvarne almeno la metà in caso di un attacco. E poi, rendendosi conto di non poter fare altro per risolvere la situazione, ecco che finalmente Giacobbe si rivolse a Dio. Ascoltate:

O Dio d’Abraamo mio padre, Dio di mio padre Isacco! O SIGNORE, che mi dicesti: “Torna al tuo paese, dai tuoi parenti e ti farò del bene”, io sono troppo piccolo per essere degno di tutta la benevolenza che hai usata e di tutta la fedeltà che hai dimostrata al tuo servo; perché quando passai questo Giordano avevo solo il mio bastone, e ora ho due schiere. Liberami, ti prego, dalle mani di mio fratello, dalle mani di Esaù, perché io ho paura di lui e temo che venga e mi assalga, non risparmiando né madre né figli. Tu dicesti: “Certo, io ti farò del bene e farò diventare la tua discendenza come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare”. (Genesi 32:9-12)

Questa è una preghiera con la “P” maiuscola, è la preghiera più lunga che troviamo nell’intero libro della Genesi! È perfetta: dapprima Giacobbe sottolineò di aver obbedito ai comandamenti di Dio, poi riconobbe di essere indegno della benevolenza di Dio e ammise la sua preoccupazione per una possibile vendetta di suo fratello. E, infine, supplicò il Signore di intervenire, basandosi sulle promesse da Lui ricevute.

È una bellissima preghiera, teologicamente perfetta, proprio come molte di quelle che facciamo noi ogni giorno e in particolare nel bisogno! Ma fino a che punto Giacobbe ci credeva?

Subito dopo la preghiera vediamo, infatti, Giacobbe agire molto strategicamente. Invio ben 550 animali in piccoli gruppi come dono a Esaù nel tentativo di placare la sua ira. Lui stesso però restò indietro. La domanda è: Giacobbe agì come parte della propria responsabilità oppure, sotto sotto, temeva che Dio non avrebbe voluto o potuto cambiare il cuore di Esaù?

La preghiera di Giacobbe, pur essendo profonda e sincera, sembra più una preghiera nello stile “Quando tutto il resto fallisce, allora prega”. Giacobbe mandò tutti avanti, compresa la sua famiglia, ma lui stesso restò indietro… Se avesse davvero confidato nel fatto che Dio avrebbe potuto cambiare il cuore di Esaù, sarebbe stato in testa alla carovana, non alla fine… Infatti, disse “forse mi farà buona accoglienza”, ma ciò che in realtà pensava era “forse mi ucciderà…”.

Cosa puoi imparare di utile dalla preghiera di Giacobbe e da come si comportò dopo? Una cosa è certa, non è sbagliato fare passi concreti per risolvere una situazione, anche dopo aver chiesto l’intervento di Dio. Perché anche se chiediamo aiuto a Dio, non vuol dire che poi dobbiamo starcene con le mani in mano in attesa che Lui faccia qualcosa. Ma ricorda che, a differenza di Giacobbe, hai lo Spirito Santo che ti guida. Se confidi in Cristo, allora puoi stare certo che il Signore provvederà per te, ma sei anche responsabile di lasciarti guidare in ciò che è giusto fare, perché parte della soluzione potrebbe proprio essere la tua giusta reazione.

Vivi sulla base della tua nuova identità

Dopo che Giacobbe ebbe fatto attraversare a tutti quanti il torrente, ecco ciò che accadde…

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino all’apparire dell’alba. (Genesi 32:24)

Questa volta Giacobbe si trovò a lottare contro un avversario che non poteva sconfiggere. Non era un uomo qualunque bensì, secondo il profeta Osea un angelo di Dio (Osea 12:4-5), il che non è altro che un riferimento a Gesù Cristo stesso. Giacobbe lottò con Dio e Dio permise che quella lotta continuasse fino a quando Lui stesso non decise di interromperla.

Ti è ma capitato di lottare con Dio in preghiera, magari confrontandolo con la tua disperata situazione e insistendo affinché Lui intervenisse? A volte Dio permette queste situazioni, come le vediamo spesso nei Salmi, nelle quali vuole vederci lottare per ottenere la sua benedizione o il suo intervento. E lo fa per portarci a capire una cosa: che la sua grazia ci basta e che la sua potenza si dimostra perfetta nella nostra debolezza (vedi 2 Corinzi 12:9) e per farci capire che in quel momento in realtà Cristo è lì con noi!

Giacobbe si stava battendo bene, ma quando Dio smise di lottare ad armi pari, gli bastò toccare la giuntura dell’anca di Giacobbe per slogargliela. A quel punto Giacobbe non poté che arrendersi. Avendo però riconosciuto che aveva di fronte più di un essere umano, disse: “Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!” (32:26). Prima però dovette umiliarsi quando Dio lo smascherò chiedendogli: “Qual è il tuo nome?”. Ricordiamoci che Giacobbe significa “l’ingannatore” e così Dio costrinse Giacobbe ad ammettere la sua vera identità. Dio aveva finalmente fatto capitolare Giacobbe, ma poi gli disse:

Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto. (Genesi 32:28)

Con il nuovo nome Dio diede a Giacobbe una nuova identità. Da quel momento in poi sarebbe diventato il padre del popolo eletto di Dio. Ciò che avvenne qui è fondamentale per capire ciò che avviene anche con noi. Nonostante le bugie e i piani di Giacobbe, e tutte le sue lotte contro Dio, non ha potuto essere veramente benedetto da Dio finché non ha riconosciuto il proprio fallimento e non ha ammesso chi era veramente.

È proprio ciò che Dio si aspetta anche da ognuno di noi. Desidera portarci al punto di ammettere le nostre debolezze e le nostre mancanze e a riconoscere che siamo totalmente dipendenti da Lui. Ma non lo fa solo per puro divertimento, bensì per portarci amorevolmente alla fine di noi stessi, in modo che possiamo riconoscere che abbiamo bisogno di Dio. E lo vuole fare per poterci benedire, per trasformarci sempre più nell’immagine di suo Figlio Gesù.

Il pastore e teologo Kevin DeYoung ha espresso molto bene questo concetto dicendo:

Ecco la buona notizia: Dio è ancora più impegnato nel cambiarti, nel farti crescere e nel trasformarti, di quanto non lo sia tu stesso.

Gesù Cristo è il Re dei re che dobbiamo temere, non perché devi avere paura di Lui, ma perché ti ama e si prende cura di te, perché è morto sulla croce di una morte che noi avremmo meritato, perché è stato spezzato per noi, affinché Dio potesse benedirci riportandoci in comunione con Lui, in un rapporto intimo e d’amore che era stato spezzato a causa del peccato.

E ogni volta che andiamo da Lui arrendendoci, ci riconferma amorevolmente la nostra nuova identità, quella di figli e figlie del Re. E ciò che ti incoraggio a fare fra poco, quando ci accosteremo alla Cena del Signore. Vuoi arrenderti nuovamente e completamente a Cristo? Vuoi portare a Lui anche ciò che ultimamente hai forse trattenuto? Lui ti aspetta!

Amen

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