Vivere la libertà senza perdere il fratello

Daniele Scarabel
Pastore
In ogni chiesa ci sono differenze che pesano più di quanto ammettiamo. E non sto parlando delle dottrine centrali o di ciò che la Bibbia definisce chiaramente peccato, ma dei modi diversi con cui viviamo la fede nella quotidianità. C’è chi preferisce maggiore prudenza davanti a certe scelte concrete. C’è chi, sulle stesse cose, vive con più libertà. È la normalità di una comunità, lo vediamo quando si parla di stile di vita, abitudini, sensibilità personali.
Paolo descrive questa dinamica con due parole. I “deboli”: chi ha una coscienza più scrupolosa. I “forti”: chi si muove con maggiore libertà su questioni secondarie.
Ma Paolo non divide la chiesa in categorie fisse. Non sta dicendo che alcuni sono più spirituali e altri meno. Sta mostrando due modi diversi di reagire su temi non essenziali. E tutti noi, su questioni diverse, possiamo essere forti in un’area e deboli in un’altra.
A Roma queste differenze stavano creando tensioni. I “forti” si sentivano più maturi. I “deboli” più fedeli alle regole. E piano piano si giudicavano a vicenda. La domanda allora è semplice: come camminiamo insieme quando la nostra coscienza non legge le cose allo stesso modo, ma riconosciamo lo stesso Signore?
Romani 14 ci guida proprio qui. E mostra che la maturità non si misura da ciò che posso permettermi, ma da ciò che scelgo di fare per il bene dell’altro.
Accogli l’altro come Dio ha accolto te (Romani 14:1–4)
Paolo apre così: “Accogliete colui che è debole nella fede, ma non per sentenziare sui suoi scrupoli” (14:1). Qui affronta direttamente la tensione che attraversava la chiesa di Roma. Non si trattava di peccato, ma di differenze pratiche tra credenti sinceri.
Alcuni evitavano certi cibi o osservavano giorni particolari. Altri, consapevoli della libertà in Cristo, non avevano più quei limiti. Tutti amavano il Signore, ma si guardavano con sospetto.
Paolo evita di rispondere alla domanda: “Chi ha ragione?” Parte invece dalla relazione: come ti rapporti all’altro quando vive la fede in modo diverso dal tuo? Il problema non sono le scelte diverse, ma l’atteggiamento con cui le leggi.
Questo accade anche oggi. Alcuni si sentono “forti”, convinti di avere una visione più matura. Ad esempio, a un pranzo della chiesa qualcuno vorrebbe un bicchiere di vino e non capisce perché si possa scegliere di non servire del tutto il vino. Oppure qualcuno nota che alcuni evitano di partecipare a certe attività culturali e lo interpreta come rigidità.
A volte quella che chiamiamo forza è però solo bisogno di conferma. Vogliamo che gli altri facciano le nostre stesse scelte per sentirci nel giusto. Quando qualcuno fa diversamente lo viviamo quasi come una critica indiretta al nostro modo di vivere. È lì che nasce la tensione, quando la libertà diventa un modo per affermare sé stessi con il pensiero implicito: “Io ho capito meglio di te come si vive la libertà in Cristo”.
Paolo smonta tutto con una frase: “Dio lo ha accolto” (14:3). Dio ha accolto l’altro, che in certi casi si fa più scrupoli di te in Cristo, nello stesso modo in cui ha accolto te. L’altro non vive davanti a te, vive davanti al Signore, ed è il Signore a farlo stare in piedi. Non sei tu il garante della sua vita spirituale, né lui ha bisogno della tua approvazione per essere saldo.
E non c’è solo il rischio di chi si sente forte e disprezza. Anche chi si sente più prudente può giudicare facilmente chi si concede più libertà. Se ti disturba che un fratello o una sorella viva la sua libertà in Cristo in modo diverso, la domanda diventa: perché ti disturba?
Le differenze ci sono. C’è chi è più prudente riguardo ai social o al tempo online e chi vive il tutto con più leggerezza. C’è chi preferisce un culto più tranquillo e chi uno più dinamico. Chi prega in modo spontaneo e chi in modo più strutturato. Chi educa i figli con maggiore rigidità e chi con maggiore flessibilità.
E la domanda di Paolo è diretta: “Chi sei tu che giudichi?” (14:4). Attenzione, non dice: “Chi sei tu che correggi?”, perché la correzione, laddove qualcuno sbaglia, è biblica e nasce dall’amore. La correzione mira al bene dell’altro, mentre il giudizio nasce dal bisogno di sentirsi superiori.
La frase da tenere impressa è questa: “Dio ha accolto anche lui. Dio ha accolto anche lei”. La grazia che ti ha accolto è la stessa che ha accolto l’altro. Il “debole” è chiamato a crescere nella libertà del Vangelo. Il “forte” è chiamato a crescere nell’amore che costruisce. Nessuno resta fermo: entrambi devono maturare.
Dove senti che la diversità dell’altro ti mette alla prova? In quale ambito concreto fai più fatica ad accogliere chi non fa le tue stesse scelte? E come potresti trasformare quel giudizio in un gesto di grazia che aiuta l’altro a crescere?
Se il primo passo è accogliere, il secondo è capire come vivere la libertà senza mettere l’altro in difficoltà. Ed è lì che Paolo ci porta ora.
Vivi la tua libertà davanti al Signore (Romani 14:5–12)
Paolo ora sposta lo sguardo. Non parla più del rapporto tra credenti, ma del rapporto personale di ciascuno con il Signore. La domanda non è cosa pensano gli altri del nostro modo di vivere la fede. La domanda è davanti a chi viviamo.
“Ciascuno sia pienamente convinto nella propria mente” (14:5), dice Paolo. Convinto, non trascinato dalle abitudini, non dipendente dal giudizio degli altri. La libertà cristiana non è fare ciò che ci passa per la testa. È assumersi la responsabilità di ogni scelta davanti a Cristo.
La vita concreta è fatta di scelte quotidiane. C’è chi vive la domenica pomeriggio camminando in montagna e chi preferisce rimanere a casa in silenzio. Se entrambi lo vivono come un tempo di riconoscenza e di riposo davanti a Dio, entrambi onorano il Signore.
Oppure prendiamo il rapporto con il denaro. Alcuni sentono il bisogno di vivere una vita molto sobria, altri vivono la generosità senza timore di concedersi qualcosa in più. Non stiamo parlando di quale stile di vita sia più corretto, ma se lo stiamo vivendo davanti al Signore, con gratitudine e responsabilità, oppure no.
E qui il testo ci invita a fermarci un momento. Molte scelte che facciamo non sono né giuste né sbagliate in sé, ma il modo in cui le viviamo rivela la motivazione del nostro cuore. A volte facciamo alcune cose per abitudine, per comodità, per non deludere qualcuno o per restare nella nostra zona di comfort.
Vale dunque la pena chiedersi con sincerità: questa scelta la sto vivendo per il Signore oppure per me? C’è qualcosa che potrei semplicemente riallineare alla volontà di Dio, non per obbligo, ma perché desidero onorare Cristo anche nelle cose più ordinarie? Cosa cambierebbe nella mia vita quotidiana se ogni scelta fosse davvero vissuta davanti a lui?
In tutto questo, la questione non è “è giusto o sbagliato?”, ma “lo faccio per il Signore?”. Perché, come dice Paolo, “siamo del Signore” (14:8). Non apparteniamo alle aspettative degli altri. Non apparteniamo nemmeno alle nostre abitudini. Apparteniamo a Cristo, che è il Signore dei vivi e dei morti. La nostra unità non nasce dal prendere le stesse decisioni, ma dall’appartenere allo stesso Signore.
Quando poi Paolo aggiunge che “tutti compariremo davanti al tribunale di Dio” (14:10), non lo fa per spaventarci. Vuole rimettere a fuoco ciò che conta. Il giudizio decisivo non è il nostro e non è quello degli altri. È il suo. Questo ci libera dalla pressione di dover piacere a qualcuno e ci riporta ad esaminare la nostra coscienza davanti a Dio.
Paolo sta dicendo con chiarezza: vivi la tua libertà con responsabilità. Non per distinguerti, non per reagire agli altri. Vivi per il Signore.
Scrivendo ai Galati, Paolo riassume così questo stesso principio:
“Voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non usate la libertà per dare occasione alla carne, ma servitevi gli uni gli altri per mezzo dell’amore.” (Galati 5:13)
La libertà cristiana è questo: un dono ricevuto da Cristo che diventa servizio per il bene dell’altro.
E questo ci porta naturalmente al terzo punto, dove Paolo ci mostra come vivere questa libertà senza diventare motivo di inciampo.
Non diventare motivo di inciampo (Romani 14:13–23)
Paolo si rivolge ora soprattutto a chi si sente più libero, ai “forti”. Dopo aver detto “smettiamo di giudicarci”, aggiunge: “decidetevi piuttosto a non porre inciampo sulla via del fratello, né a essere per lui un’occasione di caduta” (14:13). Non mette in discussione la nostra libertà anzi, dichiara chiaramente che “nulla è impuro in se stesso” (14:14).
Il punto non è la cosa in sé. È l’effetto che può avere sull’altro. La libertà cristiana non è mai solo personale. È sempre vissuta in relazione. La vera domanda non è “posso farlo?”, ma “questo aiuta il mio fratello?”.
Paolo ci ricorda che con il nostro atteggiamento possiamo “turbare” (14:15) un fratello o addirittura “distruggere l’opera di Dio” (14:20) in lui, ovvero ostacolare la sua crescita. Può succedere quando chi è libero compie un gesto naturale per sé, ma lo fa davanti a chi quella libertà non ce l’ha. L’altro, non convinto, si sente spinto a imitarlo.
Ma Paolo dice: “tutto quello che non viene da fede è peccato” (14:23). Non perché la scelta sia sbagliata, ma perché non è libera. E questo fa male.
Paolo ci ricorda che la nostra libertà va custodita davanti a Dio. Non tutto ciò che possiamo fare è utile. La convinzione personale resta centrale. Chi agisce senza essere convinto non cammina per fede e si fa del male. Per questo ognuno è chiamato a muoversi secondo ciò che riconosce come buono davanti al Signore.
Lo vediamo anche nella vita di chiesa. Un gruppo propone un’attività normale per alcuni, ma “zona grigia” per altri. Basta una battuta per creare pressione e far sentire alcuni fuori posto. Oppure alcuni parlano con libertà di film, serie TV, stili di vita. Per altri questi discorsi potrebbero risvegliare tentazioni che stanno combattendo o ferite che stanno cercando di guarire. La libertà può diventare una porta aperta proprio dove l’altro sta cercando di tenerla chiusa.
Tu puoi vivere la tua libertà, ma vivila nell’amore. L’amore osserva, ascolta, si chiede: “Questa libertà edifica l’altro?”. E se la risposta è no, sa aspettare o rinunciare per un tempo. Non perché la cosa sia sbagliata, ma perché il fratello conta di più.
Per questo Paolo dice che il regno di Dio “non consiste in vivanda né in bevanda”, ma in “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (14:17). La presenza di Dio tra di noi non si vede nelle pratiche esterne, ma nel clima che lo Spirito Santo crea tra di noi. Se le nostre scelte generano giustizia, pace e gioia, siamo nel centro del regno di Dio. Se generano disagio o tensione, allora abbiamo perso la direzione.
Da qui la conclusione: “Cerchiamo le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione” (14:19). Una chiesa che vive così non ha bisogno di uniformità.
Ed è questo che mostra una comunità che vive la libertà senza perdere il fratello: persone che camminano davanti al Signore con gli occhi aperti sul fratello accanto, e che usano la libertà per edificare, non per dividere.
Quindi chiediti: “Quello che faccio, dico o propongo nei nostri gruppi rende più facile o più difficile per l’altro camminare con Cristo?”.
Conclusione
Paolo oggi ci ha ricordato che il punto non è quanta libertà abbiamo, ma se la usiamo per aiutare l’altro a camminare con Cristo. Il riferimento resta uno solo: viviamo per il Signore. È Lui che ha accolto noi per primo, non quando eravamo forti, ma quando eravamo deboli. La nostra accoglienza reciproca nasce dalla sua.
La libertà diventa matura quando assomiglia alla sua: la libertà di Cristo che ha rinunciato a se stesso per il nostro bene. E prima di arrivare alla Santa Cena vi lascio con una domanda concreta: “Cosa significa per me usare la mia libertà alla luce della Croce?”
Amen

