Inciampare o credere? Scegli Cristo

Daniele Scarabel
Pastore
Se avete mai letto la lettera ai Romani tutta d’un fiato, forse vi siete chiesti cosa c’entrano i capitoli 9–11 col resto. Sembrano quasi una parentesi… ma ci portano più a fondo nel carattere e nell’opera di Dio.
Come abbiamo visto domenica scorsa, nei primi versetti del capitolo 9 Paolo esprime il dolore per il suo popolo che rifiuta Cristo. Nella seconda parte, quella che leggeremo oggi, l’apostolo ci mette davanti a una scelta che riguarda tutti: inciampare su Gesù o credere in Lui. Per spiegarla, affronta due domande decisive: “Perché alcuni credono e altri no?” e “Se Dio è sovrano, che ne è della nostra responsabilità?”.
Accetta il mistero della sovranità di Dio
Tu allora mi dirai: «Perché {dunque} rimprovera egli ancora? Poiché chi può resistere alla sua volontà?» Piuttosto, o uomo, chi sei tu che replichi a Dio? La cosa plasmata dirà forse a colui che la plasmò: «Perché mi hai fatta così?» Il vasaio non è forse padrone dell’argilla per trarre dalla stessa pasta un vaso per uso nobile e un altro per uso ignobile? Che c’è da contestare se Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza dei vasi d’ira preparati per la perdizione, e ciò per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso dei vasi di misericordia che aveva già prima preparati per la gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamato non soltanto fra i Giudei ma anche fra gli stranieri? (Romani 9:19-24)
Dopo aver affermato nella prima parte del capitolo che Dio ha misericordia di chi vuole e indurisce chi vuole, Paolo immagina già l’obiezione che qualcuno potrebbe sollevare: “Se Dio è sovrano, allora perché ci rimprovera per le nostre scelte sbagliate?”. E risponde: “O uomo, chi sei tu che replichi a Dio?”. Non lo fa per evitare di rispondere alla domanda, ma per ricordarci chi siamo noi e chi è Dio. Lui è il Creatore; noi, la creatura.
È lo stesso che accadde con Giobbe: Dio non gli spiegò il motivo della sua sofferenza, ma gli mostrò la sua grandezza, finché Giobbe disse: “Ti conoscevo per sentito dire, ma ora l’occhio mio ti ha visto” (Giobbe 42:5).
A volte la risposta alle nostre domande non è una spiegazione, ma un incontro personale con Dio che ci porta a fidarci di Lui.
Paolo usa l’immagine del vasaio che, dalla stessa pasta, può creare un vaso per un uso nobile (per esempio per contenere dei fiori) o per un uso comune (come recipiente di servizio). Non sta parlando del valore del vaso, ma del suo scopo: ogni vaso ha la sua funzione nel disegno del vasaio.
E da qui Paolo amplia l’immagine: se ogni vaso ha uno scopo, allora questo vale anche nella storia della salvezza. Perciò introduce i “vasi d’ira” e i “vasi di misericordia”. Con questo non sta dicendo che Dio abbia creato alcuni apposta per la perdizione: mette piuttosto in evidenza la pazienza di Dio verso chi continua a rifiutarlo. Invece, per quanto riguarda i “vasi di misericordia”, il testo è chiaro: Dio li ha preparati per la gloria.
Qui entra in gioco la grazia sovrana: Dio ci ha fermati quando stavamo correndo verso la rovina, non perché lo meritassimo, ma solo per amore. La vera domanda non è “Perché non ha fermato tutti?”, ma “Perché ha fermato proprio me?”.
E il motivo di tutto è “per far conoscere la ricchezza della sua gloria” nei vasi di misericordia. Questa gloria non è un’idea astratta: è “Cristo in noi” (Colossesi 1:27). Come scrive Paolo ai Corinzi: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra” (2 Corinzi 4:7), così che sia chiaro che la potenza viene da Dio e non da noi.
E se oggi ti senti fragile, stanco o “argilla senza valore”, ricordati: Dio non ti misura per la forma o la perfezione esterna, ma per ciò che ha posto dentro di te: Cristo stesso, con la sua presenza, la sua gioia e la sua grazia. È proprio questo che, come leggiamo in Efesini 2:7, Dio intende mostrare “nei secoli futuri”: “la smisurata ricchezza della sua grazia”.
Mi viene in mente una sorella anziana della nostra chiesa. Diceva spesso di sentirsi inutile, senza particolare valore. Eppure, la sua vita era piena di gesti di fede: pregare per i malati, telefonare a chi era solo, incoraggiare con parole gentili. Ai suoi occhi lei si vedeva solo come “argilla grezza”; ma agli occhi di Dio era un vaso di misericordia, già colmo della sua gloria.
Accettare il mistero della sovranità di Dio significa fidarsi delle sue mani che ci stanno modellando, anche quando la pressione è forte e non capiamo cosa sta facendo.
Questa settimana provare a pregare al mattino dicendo:
“Padre, oggi mi affido alle tue mani; Spirito Santo, forma in me l’immagine di Gesù. Anche se fosse doloroso, ti chiedo di modellarmi come tu meglio ritieni. Dammi occhi per riconoscere il tuo lavoro nella mia vita e un cuore disposto a fidarsi, anche quando non capisco.”
Scopri l’ampiezza della misericordia di Dio
Paolo ci ha mostrato che Dio, come un vasaio, prepara i suoi vasi di misericordia per la gloria. Ma chi sono questi vasi? E fino a dove si estende la sua misericordia? È proprio qui che l’apostolo ci porta, citando le parole di Osea e Isaia.
Così egli dice appunto in Osea: «Io chiamerò “mio popolo” quello che non era mio popolo e “amata” quella che non era amata»; e: «Avverrà che nel luogo dov’era stato detto loro: “Voi non siete mio popolo”, là saranno chiamati “figli del Dio vivente”». Isaia poi esclama riguardo a Israele: «Anche se il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato; perché il Signore eseguirà la sua parola sulla terra in modo rapido e definitivo». Come Isaia aveva detto prima: «Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo diventati come Sodoma e saremmo stati simili a Gomorra». (Romani 9:25-29)
Dopo aver parlato dei “vasi di misericordia” preparati per la gloria, Paolo aggiunge: “cioè verso di noi, che egli ha chiamato non soltanto fra i Giudei ma anche fra gli stranieri” (v. 24), come per dire: questa grazia non ha confini etnici o culturali. Israele ha rifiutato il Messia, ma la salvezza non è un privilegio per pochi. È un dono che Dio offre anche a chi meno te lo aspetti.
Per confermarlo, Paolo cita Osea: “Io chiamerò ‘mio popolo’ quello che non era mio popolo e ‘amata’ quella che non era amata” (v. 25). Osea parlò in un momento drammatico: Israele, infedele, meritava di essere ripudiato; eppure, Dio promise di riallacciare l’alleanza con il suo popolo e di dare un nuovo nome a chi era stato rifiutato.
Paolo prende questa promessa fatta a Israele e la applica anche ai pagani: chi era lontano è stato avvicinato, chi era “non amato” è ora chiamato “amato”. È come se dicesse ai suoi connazionali: “Sapete bene che Dio è sempre stato il Dio che sorprende, benedicendo chi non se lo merita e chi non se lo aspetta. Perché allora vi stupite se ora la sua misericordia raggiunge anche i pagani?”.
E questo non è solo un fatto storico: riguarda anche noi. Dio non ha aspettato che ci rendessimo presentabili o che mettessimo ordine nella nostra vita. Non ci ha accolti perché avevamo finalmente “superato la prova” o perché avevamo qualcosa da offrirgli. Ci ha chiamati proprio quando eravamo “non popolo”, estranei ai suoi patti, confusi, forse anche ostili verso di Lui… e ci ha dato un posto nella sua famiglia.
Questa è la forza della grazia: non solo ci perdona, ma ci adotta, ci dà un nuovo nome e una nuova identità, che non dipendono da ciò che abbiamo fatto ma da ciò che Cristo ha fatto per noi.
Poi Paolo cita Isaia: “Anche se il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato” (v. 27). Qui il tono cambia: è un avvertimento per chi pensa di essere “a posto” solo perché appartiene al popolo eletto o perché frequenta i luoghi giusti. Ma la salvezza non si basa su un’etichetta religiosa, bensì su una fede viva in Dio. Dio ha sempre respinto chi presumeva di meritare la sua benedizione.
Poi Paolo conclude la citazione di Isaia ricordando che senza l’intervento di Dio, Israele sarebbe stato travolto come Sodoma e Gomorra, città simbolo di giudizio e distruzione. Se oggi c’è ancora un popolo che gli appartiene, è solo perché Dio ha scelto di preservare un “resto” per pura grazia. Questo vale anche per noi: se restiamo nella fede, non è per la nostra forza o coerenza, ma perché Dio è fedele e continua a tenerci nelle sue mani.
Questa doppia citazione — Osea e Isaia — ci ricorda che la grazia di Dio è allo stesso tempo inclusiva e selettiva: inclusiva, perché raggiunge chiunque crede, anche i più lontani; selettiva, perché non tutti quelli che si ritengono già dentro lo sono davvero.
E qui voglio fermarmi un attimo. Forse sei qui e ti senti “non amato” o lontano. Magari pensi che Dio non si interessi di te, o che per te sia troppo tardi. Oggi voglio dirti: Lui ti conosce per nome, ti ama da sempre e ti apre le braccia come a un figlio o a una figlia che torna a casa. Riconosci la sua voce che ti chiama?
O forse pensi di essere “a posto” perché fai parte della cerchia giusta o perché hai alle spalle una lunga storia di fede. Ma se il tuo cuore non dipende ogni giorno da Cristo, questa sicurezza è un inganno. La salvezza non si eredita: si riceve solo per grazia, per mezzo della fede — una fede viva, che cambia il modo in cui pensi, ami e agisci. La vera fede non si limita a farti dire di credere: ti porta a vivere come figlio di Dio, in un cammino di obbedienza e trasformazione.
Meditare su questi versetti ci aiuta a rimanere umili davanti a Dio e a esaltarlo per la sua sovranità e sapienza. La vera grazia ci mette in ginocchio: siamo qui solo perché Dio ha deciso di amarci. E se Lui ha allargato i confini della sua misericordia fino a raggiungere anche noi, allora nessuno è fuori dalla portata della sua chiamata!
Ricevi la giustizia per fede
Ma se la misericordia di Dio è così grande, perché Israele non l’ha accolta? Paolo risponde mostrandoci la radice di questo inciampo…
Che diremo dunque? Diremo che degli stranieri, i quali non ricercavano la giustizia, hanno conseguito la giustizia, però la giustizia che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge di giustizia, non ha raggiunto questa legge. Perché? Perché l’ha ricercata non per fede, ma per opere. Essi hanno urtato nella pietra d’inciampo, come è scritto: «Ecco, io metto in Sion un sasso d’inciampo e una pietra di scandalo; ma chi crede in lui non sarà deluso». (Romani 9:30-33)
Paolo ci mette davanti due strade: i pagani, che non stavano nemmeno cercando Dio ma lo hanno trovato per grazia; e Israele, che cercava di guadagnarsi la giustizia con le proprie opere… e ha fallito. Perché? Perché hanno inciampato in Gesù.
Inciampare significa non solo trovare un ostacolo, ma cadere malamente. Quella “pietra” è Dio stesso che l’ha posta. Gesù è la pietra principale su cui si regge tutto il progetto di salvezza. Ma chi lo rifiuta, prima o poi, ci inciampa sopra. Israele si aspettava un Messia potente, pronto a scacciare i Romani e a riportare gloria alla nazione. Invece è arrivato Gesù, che ha scelto di dare la vita sulla croce… e lì si sono fermati.
Succede ancora oggi: chi è lontano da Dio può sentire il vuoto interiore e il bisogno di perdono, mentre chi vive una vita “religiosa” rischia di non guardare mai davvero dentro al cuore. Può pensare: “Io mi impegno, quindi Dio deve accogliermi”. Ma così il Vangelo perde la sua forza: o ci offende, oppure diventa un elenco di regole che soffoca la grazia.
Anche noi credenti di lunga data possiamo cadere nella stessa trappola. Possiamo pensare che Dio sia contento di noi solo perché ieri abbiamo fatto tutto il nostro dovere… o sentirci meno amati se abbiamo fallito.
Il Vangelo, invece, ci ricorda ogni giorno che la nostra sicurezza non sta nei nostri sforzi, ma in ciò che Cristo ha fatto per noi. La croce è il punto di partenza e il punto d’arrivo della nostra fede.
E qui Paolo ci mostra due verità che dobbiamo tenere insieme: Dio è pienamente sovrano su tutta la storia, e ogni persona è pienamente responsabile delle proprie scelte. Non è facile da capire, un po’ come la luce che in fisica si comporta sia come onda che come particella: ci sembrano due cose opposte, eppure sono entrambe vere. La Bibbia ci chiede di abbracciarle entrambe, anche se il mistero rimane.
Infine, Paolo cita Isaia: “Chi crede in lui non sarà deluso”. Qui la scelta è chiara: inciampare in Gesù o credere in Lui. Inciampare significa rifiutare la croce perché sembra debole o inutile. Credere significa riconoscere in quella croce “la potenza di Dio e la sapienza di Dio” (1 Corinzi 1:18–24): potenza, perché lì Dio ha vinto il peccato e la morte; sapienza, perché lo ha fatto in un modo che nessuno avrebbe mai immaginato.
E allora la domanda è semplice: su cosa stai costruendo la tua vita? Se è su Gesù, puoi affrontare ogni prova con la certezza che non ti lascerà deluso — né oggi, né domani, né nel giorno in cui lo vedrai. Ma se costruisci su altro, anche la base più solida prima o poi crollerà.
Conclusione
Oggi, come alla fine del nostro testo, la scelta rimane la stessa: inciampare su Gesù o credere in Lui.
Se non hai ancora riposto la tua fiducia in Cristo, ascolta la sua promessa: “Chi crede in lui non sarà deluso”. Puoi dire oggi: “Mi fido di te, Signore. Non mi appoggio più sulle mie forze, ma su ciò che tu hai fatto per me”.
E se invece sei già un credente, ricorda che questa stessa fede non è solo un punto di partenza: è la forza per camminare ogni giorno. Credere significa anche lasciare che lo Spirito Santo continui a trasformarti, modellandoti come vaso di misericordia, fino a riflettere sempre di più il carattere di Gesù. Significa affrontare prove e incertezze con la certezza che Lui ti terrà saldo fino alla fine.
Che tu stia iniziando oggi il cammino o che lo percorra da anni, la scelta rimane la stessa: inciampare su Gesù o credere in Lui. Scegli Cristo.
Amen